martedì 31 luglio 2012

Tu es bell, et je ne sais pas quoi faire...

Le settimane scorrono tutte uguali, ed i giorni anche, che quasi si potrebbe credere di essere ancora in primavera e tutto sia ancora da decidere, tutto da fare, tutto da sbagliare, e d'improvviso in due giorni accade di tutto, ed il cuore mi batte in petto così forte.
Non mi era mai capitato di prendermi un'infatuazione per una persona che so non potrà mai saperlo. Non è una questione in dubbio: non lo saprà mai, e basta. E non ho neanche l'incertezza agitata di chi pondera di dichiararsi, di chi un po' in fondo a se stesso ancora spera; io non spero, non l'ho mai fatto, ed è quasi dolce rimanere ad osservare in silenzio, giorno dopo giorno, ma non credevo che sarebbe stata così. Per mesi son rimasta in un angolino, e non m'importava di nulla fuorché di godere della sua presenza, ma d'improvviso oggi ho capito che non è così semplice, né lo sarà mai, ed ho cominciato a sperare che tutto ciò finisca presto ed io non debba mai più vedere, sentire, odorare.
Ho paura, e l'unica consolazione è che non lo saprà mai.

In tutto questo batticuore, oggi mi son scontrata con la prima volta con la morte, a lavoro, e mi sono stupita del mio essere, almeno inizialmente, così fredda. Ma poi ho capito: è che me la faccio sotto, e quando si parla di gente che muore, io neanche ci penso. Recepisco l'informazione, ma non la faccio mia; voglio vivere per sempre, è così bello vivere! E non voglio vedere neanche da lontano qualcuno che muore. La morte non esiste, per me, e non voglio pensarci mai - che resti tutto ancora qualche percentuale nella mia testa, e non di più; anche se intorno a me si piange, io no.
Voglio vivere per sempre e voglio che il mio cuore batta così per sempre.

domenica 10 giugno 2012


Caro Max,
Anni fa ho visto un film: un uomo oltre la soglia dei cinquanta, con figli grandi e lontani, perde la moglie, ed intraprende un viaggio in camper per ritrovare la serenità; per tutta la durata del film, scrive delle lettere ad un bambino africano adottato a distanza, ed una voce narrante legge più volte l’incipit “Caro Ndugu…”
Quando ho visto quel film ero ancora liceale e per me l’Africa era solo un sogno lontano ed un punto fermo nel dedalo di emozioni contrastanti che mi muovevano. Ho sempre pensato che un giorno, quando anche io avessi avuto la possibilità di sostenere a distanza un bambino africano, avrei scritto delle lettere, così, per raccontare la mia vita a qualcuno che forse non può capirne nulla, magari senza neanche spedirle. Quando però poi, cinque anni fa, è arrivata Mareme, non l’ho mai fatto: forse perché quell’idea aveva valore solo in quanto idea, distante, romanzata.
Nel frattempo l’Africa ha determinato le scelte più importanti dei miei diciotto anni, ed è diventata una realtà tangibile, odori, suoni, colori.
Quando, qualche mese fa, è morto Masseye, mi è tornata in mente la storia delle lettere a Ndugu, e poiché ho pianto tante volte per questo bambino che non siamo riusciti ad aiutare, gli ho rivolto tantissimi pensieri. Quando tornavo a casa dopo una giornata in ospedale, con la musica dell’autoradio a volume massimo e le lacrime sulle guance, ho chiesto a Masseye il perché di tante cose, dato che io non riesco a trovarlo. Eppure non ho mai scritto a Masseye, e credo sia perché lui era solo un bambino di sei anni, meno due l’ultima volta che l’ho visto, un bambino della periferia di Dakar: cosa posso avere in comune con un essere umano così diverso da me? Posso contare sulle dita delle mani le volte in cui ci siamo visti: l’ho conosciuto la prima volta a casa sua, nel marzo 2009, quando siamo andati a fare una riunione lì e Malaye, lo zio che ci ospitava, ci ha offerto noccioline: lui è arrivato, goloso, aveva neanche quattro anni, e ce le siamo divisi, ed ho scattato quella foto con i miei piedi, grossi e pallidi, a contatto con i suoi, piccoli e neri. In quello stesso viaggio l’ho poi visitato una volta, e poi non ricordo, quella volta delle febbre alta era a marzo o a novembre? A novembre sicuramente la storia delle lesioni al volto, quella volta lo vidi due volte, e la seconda stava bene, era quasi del tutto guarito e cicatrizzato ed abbiamo anche mangiato dallo stesso piatto, cheoubouchen. E poi? Quand’è che abbiamo fatto il colloquio per l’adozione a distanza? E poi a marzo 2010, l’ultima volta, era in casa e di nuovo malato e l’ho visto per poco, forse una visita. Non ricordo, non ricordo bene.
Non ho mai scritto a Masseye neanche una lettera finta, cosa dovrei dirgli?
Però con te magari è diverso. Un uomo di più di quarant’anni, per quanto senegalese, per quanto povero, con un adulto ho forse più cose in comune, forse tu capivi di più, e poi abbiamo condiviso tanto, dalla prima volta in cui ci siamo visti, appena scesa dall’aereo, così stordita, eravamo sul pulmino che ci avrebbe portati a casa, io dietro e tu davanti, accanto al conducente, con mio padre, e quando lui ti ha detto che ero sua figlia ti sei messo a esclamare: “La fille de Cesare!”
Strani, questi bianchi, che si portano le figlie non ancora maritate a far missioni sanitarie in Senegal.
Ho sempre avuto un po’ pena di te. Eri un uomo particolare, a volte sembravi un bambino, hai perfino chiesto a mio padre di chiamarlo papi come facevo io, e mi hai detto che ero tua sorella, ma lo hai fatto un po’ con tutti noi dell’associazione, perché eri così: includevi tutti nella tua famiglia, o forse volevi far parte delle nostre, o forse era solo paraculaggine e speravi di ricavarne qualcosa. Papà ti dava 5000CFA per tornare a casa col taxi la sera, diamine, neanche otto euro! E tu tornavi a piedi, ci mettevi ore, e con quelli probabilmente la tua famiglia ci campava giorni.
E quella volta che siam finiti alla gendarmerie, e ci volevano denunciare, altro che famiglia! Sei scomparso per riapparire quando ci hanno rilasciato, giusto in tempo per la cena.
Una volta mi hai anche fatto paura: quella volta alla marcia della pace, eri palesemente ubriaco e mi hai fatto tutto quel discorso sull’amore di cui non ho capito nulla, e mi sono spaventata, credevo di aver fatto qualcosa di sbagliato e che tu avessi frainteso qualche mio gesto: fratelli e sorelle del mondo sì, ma siam comunque parte di due culture diverse, e i confini ci sono.
Così scrivo a te, forse capisci. Non so neanche bene cosa voglio dire. Per far giusto un elenco, semplice da capire: non riesco ancora a capacitarmi che anche tu sia morto e che non ti troverò, quando tornerò laggiù. Devo ricordarmi di salutare con altri occhi, d’ora in poi, ogni persona: non so quando e se potrò rivederla; con te non mi è stato possibile.
Non riesco ancora a capacitarmi che si possa morire in questa maniera. In Africa l’età media è più bassa, in Africa i bambini muoiono di fame, in Africa ogni otto secondi… ma un bambino è diverso da Masseye, età media non è Max di quarantacinque anni. Ai nomi comuni si sostituiscono quelli con la maiuscola, persone, e per me non fa differenza che tu sia di Dakar e un altro mio amico di Torrevecchia: che differenze avete? Nessuna. Un amico che muore è un amico che muore, ed il fatto che possa accadere in questa maniera, il pensiero che se fossi stato italiano non sarebbe successo, non mi aiuta affatto.
Ora che sei morto aiuteremo i tuoi bambini. Forse per loro sarà la svolta, forse no. Non saprò mai cosa pensano perché non si può mai sapere cosa pensa veramente un senegalese di te, bianco benefattore missionario che vai lì due mesi l’anno. Possibile dovessi morire per aiutarli? E di tutti gli altri orfani del Senegal, che ne facciamo? O di tutto il resto del mondo? È giusto privilegiarli perché eri nostro amico? Eravamo amici veramente, od ognuno inseguiva i suoi obiettivi, tu di trovare l’ennesimo stratagemma per mangiare e noi di sentirci diversi da queste popolazioni d’Occidente, noi illuminati che facciamo il “volontariato” per sentirci dire: “Oh, io non ce la farei mai, devi essere davvero forte per fare qualcosa del genere!”?
Patto malefico, o sotto sotto amicizia?
Ed ora, cosa devo fare?
Caro Max, come nel film, ora ti scrivo. Non ricordo affatto come continuava la trama: mi sembra fosse abbastanza noioso, in fin dei conti, e l’unico particolare che ricordo è questo delle lettere al bambino africano – l’unico che mi colpì, credo. Non so cosa volesse quell’uomo vecchio dal suo bambino a distanza.
Io a te pongo solo tante domande, perché non ho risposte. 

sabato 26 maggio 2012

Pre-sensazione di nostalgia

In me si alternano da sempre momenti vuoti e piatti d'ogni emozione, in cui me ne sto a vegetare sul letto come una larva in attesa del bozzolo, a momenti così pieni di sensazioni da lasciarmi senza fiato, e con le lacrime agli occhi. E' sempre stato così e sempre sarà, credo.
Ora è uno di quelli.
Ansia, agitazione, fallimento, divertimento, amore ed isteria, fame e nausea, sonno e insonnia, intelligenza suprema ed atti di bassissima stupidità, solidarietà ed egocentrismo spinto, senso di appartenenza.

E, sopra tutto, l'immensa nostalgia della consapevolezza che non tornerà mai più, questo momento così bello e così brutto, queste mattinate così uguali e così piene di tutto, e questo camminare sul filo perché so che, per la prima volta nella mia vita, cadrò. Cadrò e sbatterò.
Prima o poi dovrà succedere, e sarà questa volta.  

sabato 10 marzo 2012

La felicità è un groviglio di oro e stracci

Il mondo continua a mandarmi messaggi equivoci sul significato di felicità e dolore, con il risultato che sono passate alcune ore, ho continuato a rimuginarci su, senza venirne a capo, ma nel frattempo ho cucito un gufetto di stoffa porta fortuna, e vorrei tanto regalarglielo ma non mi va di chiamarlo per dirglielo o mandargli un sms, quindi me lo terrò per momenti migliori. E non ho neanche la testa per scrivere, il che mi fa rodere il culo in maniera incontrollabile, dal momento che è la prima sera che ho tempo per farlo. Il registro linguistico qui è già sceso parecchio, eh.
L'altro giorno ho passato il pomeriggio a rileggermi il mio vecchio blog, che ho tenuto per tutta la durata del liceo e buona parte dell'università. Così, sono giorni che penso di ricominciare a scriverne uno, non tanto perché qualcuno possa casualmente passare di qui e leggerlo, né tanto meno perché io immagini che qualche mio conoscente possa mettersi a cercare qualcosa su di me, per saperne di più, e riesca a trovare questo, che come nick non è neanche tanto fantasioso e ci vorrebbe poco a capire chi sono.
La realtà è che leggendo quel blog mi sono resa conto di quanto tempo sia passato, e di quanto, sebbene io ripeta a me stessa continuamente di sentirmi ancora diciassette anni, sono più grande, sono diversa, sono cambiata. L'altro giorno leggerlo mi ha intenerita e commossa, ma ora mi sento molto peggio, e nonostante credo la differenza fondamentale tra quella me e questa me sia la disperazione della prima e l'indifferenza della seconda, oggi mi sento esattamente come in quegli interminabili pomeriggi di tristezza, in cui rimuginavo su me e gli altri e il mondo e tutto mi sembrava negativo e senza senso; e mi sembra che tutto sia così anche adesso. Ho appena passato un'ora sdraiata sul letto a guardare il soffitto ingrugnata, e non lo facevo da anni. E per la prima volta da anni mi sento sola, abbandonata, incompresa.
Quando avevo diciassette anni e venivo continuamente lasciata dal ragazzo di turno, credevo che sarei stata felice solo diventando ciò che sono ora (lavorativamente parlando), ed avendo accanto una persona con la quale essere in completa simbiosi. In questi anni in cui tutto è cambiato, ed ho raggiunto ciò che volevo (e non credevo possibile), ho sempre pensato che sarei stata capace di essere felice, se avessi accettato che le persone cambiano e crescono, che io sarei cambiata e cresciuta, ed avremmo potuto farlo insieme; a causa di ciò che è successo nella mia famiglia, mi sono convinta che la sincerità è l'arma vincente e che, se fossi stata sempre sincera, ce l'avrei potuta fare.
So che lui è la persona per me, che ormai lo conosco troppo bene, e lui conosce me, per raccontarci bugie o nasconderci qualcosa, ma io oggi non sto bene, proprio per niente, e non capisco perché. Stamattina durante colazione ho detto che forse è perché, quando avevo diciassette anni, avevo tutti questi sogni, ed ora che li ho raggiunti, mi sembrano poca cosa, ma forse non è neanche questo, è che mi manca avere un nuovo obiettivo, un nuovo sogno. Credevo che avrei avuto accanto una persona con la quale sognare ad occhi aperti insieme, ma la realtà è che si sogna sempre da soli, e solo per culo, a volte, le idee coincidono. E di culo nella vita se ne può avere tanto o poco, di norma se ne ha un giorno un po' e un giorno niente, ed oggi proprio sembra che non vada, ed io non capisco più nulla, perché di stare senza lui non sarei mai, mai capace al mondo, e non lo voglio, ma non posso neanche immaginarmi così, in questo stato d'animo, ancora a lungo.
Proprio non capisco.
Com'è possibile che in un momento io mi senta come se fossimo una cosa sola? Ed ora mi senta invece così sola? Com'è possibile essere così felici e così disperati allo stesso tempo?